Ci sono gli anni nei quali un po’ tutti i tuoi amici o conoscenti o compagni di scuola o compagni di calcetto si sposano. Poi hanno bambini. Ci sono gli anni dei battesimi. Poi i primi divorzi. E altri figli. Tanti figli. E ci sono gli anni come questi, dei genitori che si ammalano. Alcuni muoiono.
Io ho già dato, come si dice, e guardo le cose con un po’ di distacco e con tutti i miei problemi di elaborazione del lutto. Quando è morto papà avevo 20 anni ed ero molto arrabbiato con lui, forse come tutti i ventenni. La sua morte mi ha costretto a passare rapidamente dalla modalità ragazzino viziato (soprattutto dal padre, a dire il vero) alla modalità giovane uomo, e questo passaggio non mi ha aiutato certamente ad affrontare la sua morte in modo sereno. Poi mi sono accorto che in fondo era giusto così, che lui non avrebbe mai accettato la vecchiaia, che se c’erano il momento e il modo giusto per andarsene, ecco: li aveva trovati. Mi sono accorto che mi aveva lasciato un cane bellissimo e la capacità di sorridere su tutto, anche sulle cose più drammatiche, e me la sono tenuta stretta in tutti questi anni. Mi ha lasciato anche cose che non sono in grado di apprezzare, come la sua voce, e il rimpianto un po’ perfido di non avergli potuto dire che lui – casanova e donnaiolo – aveva un figlio gay; e la curiosità di vederlo alle prese con Internet o con i blog, lui che scriveva anche negli angoli dei quotidiani.
La morte di mamma, invece, è stata una cosa ingiusta. Sono passati tanti anni, ma ancora faccio fatica a capirci qualcosa e inizio a temere che non ce la farò mai. Mi capita ancora di prendere in mano il cellulare per chiamarla: prenderla in giro su qualcosa della (sua) Juve, commentare questo o quel fatto di cronaca, parlare del tempo e di che giornata che è stata oggi. Signora mia. A seconda dei momenti mi fermo col cellulare in mano o cercando MOM sulla rubrica e resto un po’ lì, come un cretino. Guardo il cellulare e mi accorgo che i pochi mesi della sua malattia hanno lasciato un vuoto che non è più stato riempito da nient’altro. Non sono stato capace di metterci dentro niente e questo mi ha lasciato, oltre che un po’ più solo, un po’ malinconico e un po’ ansioso. Soprattutto sul tempo.
Il fatto che lei non abbia avuto il tempo e il modo di godersi questi anni nei quali – a differenza di papà – stava invecchiando serena, che non abbia nemmeno iniziato quel corso di computer per anziani al quale si era iscritta solo qualche giorno prima di quel giorno, il fatto che all’improvviso, da un giorno con l’altro, il calendario non esiste più, boh io non so come se ne viene fuori. Forse ho imparato a non sentirmi in colpa per non averla mai portata a New York e meno male che sono riuscito a farle conoscere s. e che il tempo per conoscerlo non è stato tanto, ma nemmeno pochissimo.
Il giorno prima di quel giorno, il tempo: io penso che non posso rimandare nulla.
In fondo la cosa difficile per me è proprio: perdonarmi il fatto di averle nascosto il tempo. Quando quella notte sono andato a casa sua per cercare gli ultimi vestiti che avrebbe indossato, mi sono subito accorto che il mio capolavoro era riuscito davvero: lei non aveva idea che il tempo stava finendo, ero riuscito a farle credere che quella malattia, sì seria, ma non così grave. Come si fa a dire a qualcuno “stai morendo”? Esiste un modo? Esiste un modo per dirlo a tua madre? Boh, io comunque non lo avevo trovato e forse non ho avuto nemmeno il coraggio di cercarlo fino in fondo.
Sono gli anni dei genitori che si ammalano e poi muoiono, e si impara a essere davvero figli quando è ormai troppo tardi.